Intervista ad Arnaldo Capezzuto

L’intervista è parte della tesi, della maturità liceale, dal titolo: “Il giornalismo d’inchiesta nella lotta alle mafie. Come il sapere e le arti possono aiutare la legalità” [luglio 2015]

Arnaldo Capezzuto, sociologo, giornalista de “Il Fatto Quotidiano” e scrittore napoletano. E’ coautore del libro “I Casalesi” e autore del libro “Il Cardinale”.

Com’è nata la scelta di fare il giornalista, ma soprattutto il giornalista d’inchiesta, esponendoti a rischi maggiori e minacce?

A volte non si sceglie un mestiere ma si viene scelti. Non è sempre così. Per una serie di circostante mi sono ritrovato sempre immerso nei fatti. Li vivo. Li respiro. Li attraverso. E’ come se gli accadimenti si sedimentassero addosso. Cerco di capire la realtà. L’essermi laureato in sociologia, l’aver approfondito gli studi sociali mi è servito. Sono strumenti di conoscenza. Non resto un teorico, chiariamo. Occorre sporcarsi le mani. Non abito nella torre d’avorio. Le mie antenne sono sempre in strada. Occorre entrare dentro. Attraversare le cose in modo neutrale. Senza pregiudizi e partiti presi. Se non lo facessi sarei un pessimo osservatore della realtà. Ecco, immagina di avere una cassetta con questi attrezzi e usarli in occasione di un qualsiasi evento di cronaca. Sviluppi la capacità di orientarti, di capire, di giungere a una obiettività che ti consente di comprendere e quindi spiegare. Racconti i fatti capendoli. Ecco già siamo nell’inchiesta giornalistica. Vivi e racconti dal di dentro i fatti, ne fai comprendere la genesi. Il giornalismo è illuminare con una lanterna le zone d’ombra. Questo secondo me è il giornalismo. Voglio dire: un articolo,  non può  risolvere un problema. Ma il giornalismo può diventare azione concreta, informare e fornire strumenti per capire, comprendere, decifrare, farsi un’opinione forte. Il giornalismo connette i saperi, trasferisce esperienze, dota il fruitore di un vissuto. Quando il cronista è dentro le cose (ed ha un’ ampia e non sempre scontata agibilità professionale) il suo scritto, video, foto, attività diventa denuncia pubblica. Quest’opera intellettuale può cambiare le cose, può scardinare, può modificare addirittura la realtà che ci si trova a descrivere. Certo non mancano le conseguenze a questo tipo d’impegno. Il giornalismo d’inchiesta quindi approfondisce i fatti facendo saltare fuori la verità e quasi sempre il cronista diventa un obiettivo sensibile: minacce, intimidazioni, querele temerarie, avvertimenti. Tutti i mezzi sono leciti, purtroppo, per bloccarne il lavoro e costringere all’ autocensura.

Purtroppo non ho ancora avuto modo di leggere il libro “Il Casalese”. Com’è nata l’inchiesta nei confronti di Nicola Cosentino?

Il libro Il Casalese – ascesa e tramonto di un leader politico in terra di lavoro – è nato per un bisogno, un’esigenza, una constatazione: non si poteva scrivere niente su Nicola Cosentino e la sua famiglia. Alla fine le notizie su questo potente erano per molti versi sempre addomesticate. Così con altri colleghi abbiamo cominciato a documentarci e svolgere una stringente inchiesta giornalistica che poi è sfociata nel libro. Quando a novembre 2011 è uscito in commercio il testo edito dalla casa editrice Centoautori, Nicola Cosentino era all’apice del suo grande potere. Era sottosegretario all’Economia con delega al Cipe e coordinatore campano di Forza Italia con percentuali di consenso di oltre 12 per cento rispetto al dato totale del partito dell’ex premier Silvio Berlusconi. Scansato per l’ennesima volta l’arresto a gennaio 2012 è cominciata da parte della famiglia Cosentino un cannoneggiamento contro il libro. Nel mirino siamo finiti 4 di noi autori. Solo io ho collezionato ben tre querele penali e una denuncia in sede civile con risarcimento del danno. Giovanni Cosentino, uno dei fartelli di Nicola, amministratore dell’azienda di famiglia l’Aversana petroli ci denuncia e chiede un risarcimento di un milione e duecentomila euro, il ritiro del libro a livello nazionale e la sua distruzione. Abbiamo risposto colpo su colpo e il giudice dopo quattro anni ci ha dato ragione condannando lo scorso giugno i Cosentino a pagare anche le spese legali.  Ci era chiaro fin dall’inizio che il tanto rumore, baccano, ammuina messo in campo dai Cosentino serviva solo per sollevare un gran polverone e nascondere la verità sotto al tappeto e nei fatti impedire che un’inchiesta giornalistica scardinasse un grumo di potere e interessi.

Che insegnamenti i giovani devono trarre dalla figura di Giancarlo Siani?

Era il 23 settembre 1985, quando un commando di killer trucidò Giancarlo Siani, abusivo de il quotidiano “Il Mattino” a colpi di pistola sotto casa mentre era a bordo della sua Mehari. Aveva osato raccontare, descrivere, svelare i meccanismi e le logiche di potere dei clan. Ne aveva capito, intuito e descritto la loro filigrana. Quei pezzi di verità da soli erano insignificanti ma incastrati, messi insieme con altri più lontani diventavano trama aberrante. Camorra, economia, colletti bianchi, politici, amministratori e codardi costituivano e costituiscono un unico blocco dalle mille, indecifrabili sfaccettature: affari, potere per il potere e patti segreti. Prima di tutti con lungimiranza, Giancarlo, ha descritto, raccontato, denunciato un nuovo e inquietante orizzonte della criminalità che va a braccetto con la politica fino a stringere accordi con la mafia.  Frequentavo il secondo anno delle scuole superiori, avevo solo 15 anni. Non sapevo di camorra, clan, boss, affiliati, logiche di morte. Entrai in aula, c’era la mia professoressa d’italiano, Starace, un vero Pit Bull. Era rivolta con le spalle alla classe. Nessuno fiatava. Avevamo il terrore che interrogasse. Esitava. Si voltò. Piangeva. Gli occhi pieni di lacrime. Depose la maschera di professoressa arcigna e dura d’animo. Con un filo di voce, stringendo la mazzetta dei giornali tra le mani, ci parlò con il cuore in mano di quel giovane cronista. La vicenda tragica di Giancarlo Siani è stata la scintilla che ha fatto decidere a molti della mia generazione di fare i cronisti. Quando ho ricevuto svariate minacce per alcune inchieste in particolare per l’omicidio di Annalisa Durante a Forcella in una lettera i camorristi mi avvisarono : “Farai la fine di Siani”. Non solo ho fatto condannare giudiziariamente i miei minacciatori ma quella sentenza l’ho dedicata proprio a Giancarlo.

In che modo è stato minacciato dalla Camorra? Ha mai pensato, magari dopo le prime minacce, di mollare tutto e dedicarsi ad un giornalismo più cauto e meno rischioso?

Le minacce a cui prima ho accennato sono legate all’uccisone di Annalisa Durante, 14 anni, ennesima vittima innocente della camorra sanguinaria a Forcella. Era sabato 27 marzo 2004 nel mirino dei killer finisce Salvatore Giuliano, giovane rampollo della nota famiglia-clan. Il conflitto a fuoco è cruento nel corso dell’agguato Giuliano spara e uccide Annalisa. Comincio a seguire la vicenda e quando termina il clamore e gli altri operatori dell’informazione vanno via, io resto li. Investigo, indago, scrivo resoconti precisi svelando retroscena e segreti. Faccio il mio mestiere. L’attenzione non è gradita. Cominciano le intimidazioni, le minacce. Quando denuncio con i miei articoli una vera e propria strategia dei clan volta a cancellare prove e impedire ai testimoni di raccontare i fatti in tribunale entro nel loro mirino. Mi rendono la vita impossibile. Il loro obiettivo era quello di impedirmi di fare il mio lavoro, volevano fare scomparire l’informazione libera e indipendente e cosi dare un contributo all’affermazione della verità. Lettere anonime, minacce in tribunale, intimidazioni telefoniche alla fine sono stato costretto per un periodo addirittura a firmare gli articoli con uno pseudonimo, ancora me ne vergogno. E’ andata bene, le mie denunce hanno permesso ai magistrati di condurre i responsabili in tribunale e condannarli. Ecco penso che la mia vicenda serva da esempio per molti giornalisti che a volte per timore o paura non denunciano le minacce mettendo a rischio la loro libertà. Certo è umano e giusto avere paura ma questa condizione normale non deve condizionare il mestiere di cronista. Nonostante tutto non ho mai pensato  per un momento di lasciare tutto e fare altro. Ero preoccupato – questo si – avevo il timore che la camorra potesse colpire la nostra azienda, la redazione, colpire qualcuno di noi e metterne a rischio l’incolumità. Lo Stato ci ha difeso, la sede del giornale è stata per mesi sotto tutela delle forze dell’ordine. Insomma le tensioni bisogna gestirle e contenere la paura. E’ un prezzo altissimo ma occorre pagarlo per continuare a fornire ai lettori un’informazione libera da condizionamenti.

Quanto è stato importante ‘Ossigeno per l’informazione’ per la vostra incolumità? Credo che tra la maggior parte dei giovani d’oggi ci sia molta indifferenza. Quest’indifferenza non farà altro che fomentare il consenso mafioso. Come vede, proiettato nel tempo, il lavoro del giornalista d’inchiesta? Ci saranno giovani interessati che vorranno raccogliere i semi dei giornalisti uccisi dalla mafia e a loro volta seminarne altri? In attesa di un risveglio dai piani alti della politica, cosa possiamo fare noi giovani per contribuire alla lotta contro le mafie?

La lotta alle mafie passa obbligatoriamente attraverso la crescita delle coscienze delle persone e contemporaneamente dell’ impegno forte delle istituzioni e della cittadinanza attiva. Fino a 30 anni fa a Napoli come a Palermo il problema più drammatico da affrontare sembrava il traffico. Mentre al Centro e al Nord tutti erano convinti che le mafie fossero solo ad appannaggio del meridione d’Italia. Si ragionava a compartimenti stagni ovvero si escludeva che i fenomeni criminali potessero avere una penetrazione orizzontale in altri ambienti e che la camorra, la sacra corona unita come la ‘ndrangheta,  la mafia, erano vicende legate alla subcultura di gruppi malavitosi territoriali che con l’uso della forza imponevano la loro legge. Invece, non è più così. Le mafie in generale ormai hanno diradato i loro confini. Non c’è più una perimetrazioni del fenomeno. Politici, imprenditori, colletti bianchi, funzionari, manager, pezzi importanti dello Stato, banchieri, grandi industrie c’è o si va formando al bisogno un blocco di potere, trasversale e gelatinoso. Sono le inchieste e le condanne che mostrano questo spaccato. Paradossalmente nonostante le informazioni circolino in modo sempre più completo e approfondito, si constata tra i giovani e i giovanissimi e in particolare le nuove generazioni che a dispetto della grande partecipazione ai dibatti sulla legalità  e una più matura sensibilità verso i fenomeni criminali esiste e serpeggia una sorta di indifferenza, acquiescenza, convivenza. Un atteggiamento, un approccio di girare lo sguardo altrove. Una contraddizione nei termini. La lotta alle mafie è anche e soprattutto buone pratiche che ognuno deve mettere in atto. E proprio la stampa può e deve avere un ruolo di stimolo e aiutare alla crescita di una coscienza collettiva nuova e consapevole. Motivo quest’ultimo che spinge sempre di più le organizzazioni malavitose ad imbrigliare i giornalisti. Con la mia esperienza ad Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio fondato da Alberto Spampinato che si occupa di notizie oscurate e delle minacce ai giornalisti, ho constato come esista nei fatti un problema serio nel nostro paese di libertà di stampa che ci ha fatto precipitare agli ultimi posti nelle classifiche nel mondo. Regioni come la Campania, Lazio, Basilicata, Lombardia sono quelle che hanno il maggior numero di giornalisti minacciati e intimiditi in assoluto e sotto scorta. Un fenomeno gravissimo che fa dell’Italia uno tra i paesi della Ue messo sott’osservazione in tema d’informazione. Il tributo di sangue in termini di  cronisti uccisi è pesantissimo e nonostante questo si continua a svolgere il lavoro di cronista in Italia tra immani difficoltà. Non ultima la grave crisi di settore che in pochi anni ha falcidiato centinaia di aziende editoriali lasciando per strada fior fiori di professionisti.

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Pubblicato da Francesco Saverio Mongelli

Classe 1997, barese. Autore di canzoni, poesie, saggi, articoli. Musicista e scacchista, appassionato anche di antimafia, attualità, giornalismo, arte e cinema.